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Nella cucina che vorrei

Nella cucina che vorrei, si entra solo scalzi. In calzini, a piedi nudi, in pantofole: insomma, senza scarpe. Shoes off, come direbbe qualche quarantenne imprenditrice del benessere di Beverly Hills che fa colazione con uno smoothie all’alga spirulina. Per quanto mi riguarda, non ho alcun capriccio esoterico a riguardo: quel parquet di rovere mi è costato a sufficienza per pretendere che i miei ospiti non lo calpestino con le loro suole sporche di ciottolato e peccati.


Sì, nella cucina che vorrei, c’è il parquet. Niente piastrelle che con le loro scanalature sono un accumulo di capelli e colonie di sporcizia che vegeta. La cucina che vorrei è essenziale solo in apparenza: dal parquet – quanto è bello quel punto di ocra, cattura la luce e la trasforma in oro – si slanciano le ante in acrilico opaco che danno struttura all’isola. I pannelli non hanno alcun motivo decorativo, né maniglie né incisioni. Insomma, sono tipi a posto, puliti come la panna a nuvola sulle fragole. Li definirei lineari; ma ogni volta che ne scoperchio il contenuto riconosco che di lineare, in quelle torri di padellame che pericolano, ci sono solo i timbri sulla mia tessera fedeltà del negozio di arredo casa all’angolo della piazza.



Appunto, “l’essenziale è invisibile agli occhi”, si legge tra le righe di quel biondino sentimentale che è un principe; e garantisco che ogni pezzo di cuore protetto dietro agli stipetti dell’isola è essenziale. Mia madre non se ne capacita: siccome vivo qui da sola, è convinta che un classico corredo da cinque pezzi di acciaio inox sia sufficiente. Beh, il sabato verso mezzogiorno, quando mi capita di fare ritorno dal giro di acquisti da sciuretta di provincia – con un nuovo timbro sulla tessera del pentolaio, s’intende – mi metto a riordinare e contare ogni ferraglia che sonnecchia lì sotto al piano cottura. L’ultimo censimento ne ha registrate ventitré tra casseruole, tegami, wok, il paiolo effetto finto-vintage sbiadito (in realtà non amo la polenta ma qualora ne avessi voglia, meglio essere sul pezzo), piastre, bastardelle, crepiera…


Uguale al numero dei recipienti da fornello impilati nell’isola al centro della mia cucina, avevo ventitré anni quando tutto questo, ancora, baluginava solo nella mia fantasia. Come immaginavo sette anni fa, alla sinistra delle cinque fiamme (non ho mai amato l’induzione, mi piace il controllo sulle lingue di fuoco che scintillano tra le griglie in ghisa) c’è il frigorifero a doppia porta. Ha il colore della fuliggine appena bruciata e la sua satinatura riflette il profilo della portafinestra lì accanto.


Da quelle vetrate, che danno su una delle vie centrali della città, si accede al terrazzo delle erbe da cucina. Ogni tanto, nei sabato mattina di sole, appoggio il bouquet di tulipani e garofani sul tavolino alla francese lì fuori. Mi fermo ogni weekend dal fioraio e mi lascio ispirare dai colori del giorno. Così, di settimana in settimana, boccioli variopinti rallegrano le tinte di bianco e nocciola, nella cucina che vorrei.



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