Matilde sapeva preparare la cheesecake. Non era il suo dolce preferito, ma ne aveva una ricetta collaudata. Si ricordava di quando quella crema avorio si era affermata in ogni canale food che fosse consultabile sul web: erano gli anni duemiladieci e lei era in quell’età da versioni di latino e autobus suburbano, sushi all you can eat di bassa lega e spuntini al sapore di piadina.
Sottobanco, ma neanche troppo, codificava ogni giorno le ricette del momento. Di torte al formaggio ne lampeggiavano dozzine al mese. Per la sua versione preferita – cotta al forno, a mo’ dello stile newyorkese, con la confettura ai lamponi – aveva preso ispirazione dal video di uno chef di mezza età; un po’ ingrigito ma capace, il suo piatto preferito potrebbe essere il brasato con la polenta, aveva sentenziato lei.

Non era il suo dolce preferito, ma alla caffetteria finiva sempre in briciole molto prima della chiusura della sera. La caffetteria non aveva un nome; non uno di fantasia almeno: aveva il suo stesso cognome. Quanto bastava per attribuire a quello spazio profumato di limone e cannella la nomea di bottega della tradizione, di laboratorio di dolci che avrebbe continuato a servire la merenda alla città anche quando lei si sarebbe ritirata. In realtà, aveva inaugurato la sua caffetteria da soli cinque anni.
Soprattutto adolescenti in trio e giovani madri apprezzavano la sua cheesecake. Alle ultime, Matilde riservava sempre un sorriso che le facesse sentire comprese. Non sapeva cosa significasse gironzolare per il ciottolato del centro con un passeggino appresso, ma voleva che quelle donne ritrovassero nella farcitura del giorno la liscezza del loro bambino e la sorpresa di quando bambine erano loro. Amavano i frutti di bosco, il sentore asprigno e il fondo tostato del burro noisette; le foglioline di menta e le mousse paglierine puntinate di vaniglia Bourbon.
Alle più giovani che passavano al suo bancone – in legno d’ebano, striato color miele e con la vetrina lustra di alzatine – dopo l’uscita pomeridiana da scuola, invece, avanzava l’invito a sperimentare. “Provate la caprese che ho preparato oggi! Non siete allergiche alle mandorle, vero?”, e solo all’ultima forchetta le informava che fosse un dolce senza glutine. Le piaceva che le ragazzine imparassero a conoscere quello che spiluccavano, che attribuissero un nome agli ingredienti dei suoi impasti e un ricordo all’essenza che li profumava.

Matilde sapeva preparare la cheesecake, anche se nel momento in cui vedeva gonfiarsi in planetaria il formaggio montato, ritornava in lei quella volta che, per leggerezza, sbagliò ad aggiungere la panna fresca nella crema. Si era sentita male, fragile nell’essersi sabotata con le sue stesse mani in una preparazione che aveva da tempo creduto sua.
Ma non era più successo, e da allora la sua cheesecake ha sempre mantenuto la viscosità che cercava. Si diceva che tanto, se il risultato non l’avesse soddisfatta, avrebbe potuto rimescolare tutto e farci dei tartufini, e comunque qualcuno avrebbe increspato le labbra all’insù a merenda, sulle poltroncine caramello che ruotano attorno alla vetrina della caffetteria che porta il suo cognome.