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Cosmopolitan - quando c'è bisogno di rosa

La coppa mi ricorda un seno di Venere. Quella di Botticelli. Azzarderei dicendo che sia la stessa usata per servire lo champagne: la verità è che non ne ho mai bevuto in vita mia e stasera non sarò io la cliente che se lo vedrà stappato dirimpetto. Non ne conosco le fattezze di cristallo, ma poco importa. Lo stelo mi cattura e mi incoraggia, pare la zampa smagrita di un fenicottero: mi ricorda che è la leggerezza a sostenere i tornanti privi di luce. All’apice sta in bilico una calotta, si impone con le curve convesse che ne definiscono il profilo in trasparenza. Di quante accortezze della fisica necessita un ninnolo da sollevare alle labbra, perché non si infranga in mano?



L’alcol dovrebbe snebbiare le domande, non plasmarle. Quella pozione mi rassicura e acciglia insieme. Ha esattamente la sfumatura dell’aurora – rododaktylos sussurrano i miei anni del classico – e come lei si lascia dietro l’incertezza del giorno che sta nascendo, di quello che accadrà. Infatti, è ingannatrice: ammalia la vista e amarica il palato; addolcisce la lingua e avanza l’invito. Di nuovo. Uno spiffero di pentimento mi balugina lontano: quando mai nell’incognita si trova piena soddisfazione. Arrivo al fondo di quella mistura, qualche goccia luccica ancora sulla liscezza del vetro e ormai il cruccio è svanito. C’era bisogno di rosa, mi persuado. Il cameriere rompe la quarta parete, gli sorrido, il nostro tavolino è il pulsare del gazebo. “Per me un Cosmopolitan, per favore”.

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